Se l’antiproibizionismo diventa di facciata
Quando si parla di gioco d’azzardo, da una parte ci sono coloro che vorrebbero tornare all’epoca del proibizionismo, quando la criminalità gestiva bische clandestine e videopoker, o raccoglieva le scommesse sugli eventi sportivi (magari alterandone i risultati).
Le persone in buona fede che compongono questo schieramento, pur coscienti di tali risvolti, mettono comunque al primo posto l’etica come parametro di scelta tra ciò che può essere tollerato e ciò che invece deve essere proibito: questo vale per il gioco ma anche per le droghe leggere, come per la prostituzione.
Sul fronte contrapposto troviamo coloro che, dinanzi a un fenomeno reale e, per alcuni versi, impossibile da sradicare (perché atavicamente consolidato nei comportamenti umani o perché impermeabile ai divieti), ritengono che l’atteggiamento più corretto che uno Stato laico debba mettere in atto sia quello di regolamentarlo, sottoporlo ai controlli necessari per tutelare il consumatore ma anche per sottrarre gli introiti alla criminalità organizzata, dirottandoli attraverso il prelievo fiscale, verso il finanziamento dei bisogni della comunità.
Ritengo che si tratti di una contrapposizione nell’ambito della quale ciascuna delle due posizioni sia motivata da profonde convinzioni culturali, entrambe meritevoli di rispetto.
Sul tema del gioco, il fronte proibizionista mostra una sostanziale coerenza, se non fosse per alcuni personaggi in cerca d’autore che, per gloria personale e in totale malafede, sono esclusivamente interessati ad alimentare il ruolo e la fama che si sono ritagliati, come “esperti” di gioco d’azzardo patologico, mediante la diffusione di analisi del tutto fantasiose, di dati inventati e avventati sillogismi, così svilendo, per interesse personale, la realtà dei problemi (seri) che dichiarano di voler affrontare.
È invece sul fronte antiproibizionista che si inizia ad intravedere una contraddizione che mina alla radice l’impronta culturale, di matrice liberale/libertaria, che lo ha contraddistinto fin dalle origini.
Aumentano infatti le voci -soprattutto in ambito politico- di coloro che, invocando a gran voce la legalizzazione delle droghe leggere, rivendicano l’antiproibizionismo come background culturale, seppure al contempo, quando si affronta il dibattito relativo al gioco l’unico concetto che, in coro, sono capaci di esprimere è <<proibire, proibire e ancora proibire>>.
Con una certa saccenza snob rispondono a tale obiezione appellandosi ad una graduatoria, da loro stessi stilata sulla base della presunta esistenza di una scala di “virtuosità dei vizi”.
L’onestà intellettuale imporrebbe invece di considerare in egual misura la preoccupazione per gli eventuali eccessi in cui potrebbero degenerare entrambe le passioni.
Premesso che chi scrive è totalmente favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, è evidente che l’atteggiamento di coloro che conducono questa battaglia portandosi dietro tali contraddizioni, non possono permettersi di ammantarla con il vessillo culturale dell’antiproibizionismo.
Il sospetto che costoro inducono, tuttavia suggerisce un’intenzione ben lontana da qualsiasi approccio culturale di ampio respiro.
Sembra più che altro una presa di posizione funzionale all’appagamento delle proprie passioni, artatamente collocate in autosuggestive cornici ricche di richiami culturali (che trasmettono anche un certo charme), oppure -ancor peggio- funzionale ad assecondare i desiderata del proprio bacino elettorale.
Un simile approccio pone in discussione la stessa possibilità che nell’attuale contesto politico nazionale possa trovare spazio un fronte culturale coerente e credibile in grado di esprimere un approccio liberale, laico, pragmatico. In buona sostanza, un approccio depurato da influenze di matrice ideologica.
E, ancor di più ci pone difronte al quesito se l’Italia, a differenza di altre democrazie moderne, possieda la capacità di “sopportare” un modello culturale ambizioso com’è quello antiproibizionista.
Si è infatti detto che l’approccio antiproibizionista dovrebbe sottintendere una visione culturale, di ampio respiro, che propone, in termini generali, un particolare approccio sul come affrontare determinate abitudini ludiche, socialmente consolidate ma potenzialmente dannose per i soggetti che le praticano, le quali però, al contempo, se correttamente disciplinate possono risultare inidonee a compromettere la libertà di chi da esse rifugge e ad attenuare gli effetti dannosi su chi le pratica.
Un approccio che, ponendo al centro le libertà individuali, dovrebbe risolversi in una semplice formula: legalizzare, regolamentare, controllare, prevenire e soprattutto educare.